#3 Quasi Maradona

Mondiali & Parole – Il terzo racconto: “Quasi Maradona” a cura di Mauro Zappia

Quanti di noi hanno sottratto tempo alla nostra giovinezza per rincorrere una palla sui prati sintetici o nei polverosi campi di pozzolana al solo fine di prenderla a calci? Circa 250 milioni di persone, tanto è stimato il numero di praticanti che, dall’Oceania alla Groenlandia, non può resistere all’impulso pedatorio.

La moderna scissione tra ciò che uno pensa e ciò che invece ciascuno di noi mette in pratica, trova il sublime argomento a contrariis nel calcio, dove non vi è frattura tra la testa ed i piedi. Essi sono un tutt’uno di forza, tecnica, astuzia, eseguita nel minor tempo possibile. I campioni non sono altro che gli esemplari viventi di quanto intelletto, istinto e piedi riescono a fare all’unisono.

Ci sono però eccezioni, campioni più campioni degli altri, iati, rotture di schemi che in un palcoscenico mondiale che conta due miliardi di appassionati, sanno diventare storia, mito e leggenda.

La leggenda dei mondiali, per la dimensione planetaria che essa ha assunto è senza dubbio Maradona. Quattro Mondiali che sarebbero potuti essere cinque se, il C.T. Menotti ai discussi mondiali del 1978, peraltro vinti, non se la fosse sentita di rischiare l’allora diciottenne dell’Argentino Juniors.

C’è chi lo considera superiore a Pelè e chi, al contrario, lo colloca subito dopo la Perla Nera, il brasiliano che nelle tabelle ufficiali del giocatore tipo ideale rappresenta la perfezione, misto di potenza, velocità e statura. Ma è pur sempre una questione di millimetri o, se volete, di millesimi di secondo. Addentrarsi in questa gara per stabilire chi è la vera leggenda calcistica, significa lasciare scorrere serate intere in discussioni, litigate, rischiando di essere, addirittura, additati di ignoranza calcistica e di vittima di senili amnesie, avendo colpevolmente lasciato nel dimenticatoio episodi che in altre menti invece sono fondamentali passaggi di storia calcistica.

Per fortuna oggi c’è Internet che aiuta a ricordare, rivedere con occhi diversi, più pacati e moderni movimenti, disposizioni, gesti atletici altrimenti destinati inevitabilmente a tingersi di color seppia.

Una cosa che, però, accomuna i due grandi, è che molti giocatori di qualche talento sono spesso paragonati a Maradona o a Pelè. Proviamo a farne una carrellata.

Riguardo alla Perla Nera, è in uso ricomprendere una serie di giocatori nell’ossimoro etnico di “Pelè bianco”, (quindi facendo riferimento al colore della pelle), poiché non si può concepire semanticamente Pelè se non con il colore e le movenze di una pantera nera.

Per alcuni di questi calciatori il soprannome è davvero una celebrazione delle doti intrinseche concesse dalla Dea Eupalla. Penso a Rivelino, Zico, Cruijff e, per arrivare ai nostri tempi, Kakà.

Poi, per altri il soprannome è sicuramente un atto di generosità al limite della beffa: da Almir Pernambuquinho, una militanza illustre nel Vasco de Gama, Flamenco, Boca Juniors, ma anche Fiorentina e Genoa, morto durante una rissa in un bar di Rio nel 1973; a Geroge Boyd che, nell’ultima giornata di serie B inglese con il suo Peterborough, scaglia senza pensarci due volte un missile in goal da metà campo; e per finire al nostrano Pietro Anastasi, da Catania.

Tra le due fasce, mi piace ricordare Eduard Stretlsov, che non potè giocare nessun mondiale, il giocatore della Torpedo 22 reti in 35 partite nell’ URSS, internato in un Gulag per aver rifiutato di andare nella CSKA e nella Dinamo Mosca La sua vicenda è narrata con ricchezza di particolari nel libro “Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione” di Marco Iaria, finalista al premio Bancarella Sport nel 2011.

Attaccante di razza, potente, che sapeva quando far male. Lontano dal proletarismo di Stato rappresentato dai vari Netto e Yashin, controrivoluzionario per eccellenza, Streltsov pagò caro la sua inclinazione politica: alla vigilia dei Mondiali, nel 1958, a soli 21 anni, viene coinvolto in una dacia per una festa, organizzata da un militare Vladimir Kharanov, appena tornato da una campagna in estremo Oriente. Streltsov fu, prima, accusato di stupro nei confronti di una ragazza presente quella sera, e, poi, convinto a firmare una confessione per essere libero di giocare la coppa del mondo in Svezia. Quello dell’attaccante della Torpedo è però l’autogol della vita. Viene spedito in Siberia, ai lavori forzati, dove resterà per 7 anni.

E’ un periodo che cambia, ovviamente, la vita di Eduard. Tesserato per la Torpedo, torna in campo nel 1965, guidando la sua squadra al secondo titolo nazionale. Ma Streltsov è una persona diversa, il sorriso e l’agilità di un tempo sono scomparsi nel complesso di un personaggio duramente provato da una condanna ingiusta. Verrà sempre ricordato per il “suo” colpo, il “tacco alla Streltsov“. Tocco unico nel suo genere, di coefficiente di difficoltà elevatissimo, che sbaragliava gli avversari e regalava gioie ed emozioni agli operai accorsi in massa per vederlo. Nel 1967 e nel 1968 viene eletto miglior giocatore sovietico, piccolo contentino delle privazioni subite negli anni più floridi della sua carriera, che si chiude con 222 partite e 99 reti. Nel 1990 muore per un cancro alla gola, malattia causata dagli anni passati in miniera.

Per quanto riguarda Maradona, l’accostamento al campione avviene, invece, secondo una (ab)usata metonimia geografica. Ricordiamo almeno 5 “nuovi Maradona” : iniziamo dal Maradona dei Balcani, Mirko Vucinic, titolo che spettava prima all’albanese Edvin Murati, non sappiamo bene a quale titolo. Poi abbiamo il Maradona del Caucaso, Gerogi Kinkladze, una vita nel City e talmente bravo nel dribbling da essere incluso dai suoi tifosi tra i tre giocatori indimenticabili di ogni tempo.

Parlando di eroi dei Mondiali, abbiamo in primis il Maradona del Nilo, Ahmed Al Kass che grazie alle sue prodezze portò per la prima volta nel 1990 l’Egitto alle fasi finali della Coppa del mondo.

Una menzione speciale merita il Maradona dei Carpazi, Georghe Hagi. Il più grande centrocampista rumeno, indubbiamente tanto brillante quanto incostante, è stato una stella dello Steaua, Real Madrid, Brescia, Barcellona e Galatasaray.

Prima del suo terzo ritiro nel 2001, giocò con la nazionale 124 volte, segnando 35 reti e tre mondiali.

La rete che lo consacra nella glorie di tutti i tempi dei Mondiali fu nel 1994. La Colombia era schierata quasi tutta nella metà campo in attesa dell’attacco della squadra rumena. Petrescu prende la palla a centrocampo, la passa al capitano Hagi e si sovrappone sulla fascia sinistra. A quel punto Hagi finta di ripassare la palla al compagno ed, in un attimo si gira verso la porta, vede il portiere leggermente fuori posizione e stampa un pallonetto in diagonale da 35 metri sotto l’incrocio dei pali opposto. Il gol è una festa, il trionfo del calciatore di razza, dotato di istinto, cervello e piedi. Il gol, una poesia come direbbe Pasolini.

Ma il mondiale americano del 1994, non sarà ricordato solo per il pallonetto di Hagi o, per noi ristretti nei ricordi delle vicende di casa nostra, per il rigore sbagliato di Baggio in finale.

Rimarrà segnato anche per il gol fatto al Belgio, dal Maradona d’Arabia, Saeed Al Owairan. La rete, votata come la sesta più bella nella storia dei Mondiali, fu realizzata al termine di una cavalcata incredibile, condotta palla al piede per 64 metri, e in dribbling su 5 avversari segnando a Michel Preud’homme, che avrebbe poi vinto il premio Yashin come miglior estremo difensore del torneo; il gol, realizzato in una partita dominata dal caldo, (43 gradi alle 12,30 del 29 giugno, al Robert F. Kennedy Memorial Stadium) si rivelò decisivo per qualificare la nazionale araba, al debutto in un campionato del mondo, addirittura agli ottavi di finale. Al ritorno in patria il giocatore fu accolto come un eroe e ricoperto d’oro dall’allora re dell’Arabia Saudita Fahd. Diventò il volto della pubblicità per Coca-Cola, Ford e Toyota ed ospite abituale nei talk show delle televisioni arabe. Il successo e il denaro, però, portarono Al Owairan sulla strada degli eccessi e dei vizi, che gli costarono addirittura una condanna di tre anni di reclusione per essere stato sorpreso in un locale a luci rosse. Successivamente, ottenne l’amnistia dallo stesso sovrano per poter giocare i successivi Mondiali del 1998, dove i bianco verdi non riuscirono a superare il primo turno del girone in cui giocava la Francia, padrona di casa.

Ma se una stella brillava, la stella, quella vera stava per scomparire lasciando un scia di polemiche e di sospetti. Maradona non se la sentiva più di essere un simbolo, di rappresentare qualcosa, di reggere tutto lo stress che procura la macchina del calcio. Confessò la sua incapacità, la sua fragilità, e la sua presunzione, il suo orgoglio lo fecero apparire diverso. E ci apparì diverso in quegli afosi mondiali statunitensi, segnati dal doping, dimagrito, un gol alla Grecia e un urlo di rabbia al mondo intero.

La breve illusione di essere tornato alla grande, di essersi riscattato davanti agli occhi del mondo e delle sue figlie dopo la squalifica di tre anni per aver assunto cocaina. Fa dichiarazioni di fuoco contro l’organizzazione di quei mondiali, contro Havelange e Blatter, rei di pensare solo ai diritti televisivi.

L’ultima sua partita, fu Argentina-Nigeria, 2-1. Poi l’efedrina, il buio, il baratro.

Non, però, la perenne notte dell’oblio. I gol sono poesia e la poesia è immortale.