#2 Maradona e l’amore

Mondiali & Parole – Il secondo racconto: “Maradona e l’amore” a cura di Luciano Cimbolini

“Roma Mondiali 2002 (Korea – Japan)

In ricordo della convivenza

fondata su

- Il processo ai mondiali

- Gli sponsor (Voxon, Toyota Yaris, etc.)

- I miei incontri “pseudo-amorosi”

- Le tue ispezioni “Alle falde del Kilimangiaro” (o giú di lì)

Eccoti la storia del + grande calciatore che io ricordi

* (salvo sondaggi di Biscardi)

26-06-2002

Gianluca

Ah dimenticavo…

Buon lavoro Ispettore!”

 

Questa è la stramba e toccante dedica che Gianluca Colarusso, amico, testa brillante fuori dagli schemi, persona gentile, mi ha scritto all’interno del libro che mi ha regalato alla fine dei tre mesi nei quali sono stato ospite nel suo appartamento sulla Nomentana. Il 5 maggio 2002 ero assieme a lui, mi dette conforto e assistenza, fu una serata mista di ironia, blasfemia, vino, risate e pianti (per me). E pensate un po’ cosa fanno gli anni … adesso la ricordo con un misto di nostalgia e allegria.

Pochi mesi dopo se ne sarebbe andato, lasciandomi/ci un dolore tuttora difficile da colmare. Gli amici del II Corso Concorso sanno bene di cosa parlo.

Io gli invidiavo molte cose, lui, una volta, mi disse che mi invidiava per come giocavo a pallone.

Il libro è “Io sono El Diego” e sinora non ho mai avuto il coraggio di leggerlo. Nascondendo vigliaccamente il suo immenso valore nel caos del secondo scaffale della libreria del soggiorno, ma tenendolo sempre sott’occhio, lì vicino a quello che ho ritenuto il suo fratello maggiore, “Splendori e Miserie del Gioco del Calcio” di Eduardo Galeano.

E’ l’anno dei Mondiali in Brasile.

E’ arrivato il momento di farlo.

E allora è d’obbligo iniziare questo viaggio nei Mondiali di calcio dal 1986, da Diego. Nessuno ha segnato un grande evento sportivo come Maradona è riuscito a fare a Messico 86.

I miei Mondiali iniziano di corsa. Dopo l’ultima partita con le giovanili del Città di Castello, mi lasciano alla uscita della E45, faccio l’autostop e fuggo al Bar di Nando per vedere la prima partita dell’Italia detentrice. Si comincia all’Azteca, il 31 maggio. Facciamo 1 a 1 con la Bulgaria. Siamo mediocri.

Il 3 giugno i Queen pubblicano “A kind of magic”. A posteriori, un chiaro segno del destino.

Ma in questo caso, il resto non conta, neanche il bar. Tutto quel mese, tutto quel palcoscenico caldo e assolato, tutta quell’estate, s’immedesima con Diego. Si è detto e si dice sempre tutto di lui, anche adesso che sono più o meno venti anni che ha lasciato orfano il football. Ma si è detto ancor di più di lui a Messico 86: la Mano di Dio, il Goal più fantastico di sempre, un’altro ancora di più, l’assist che decide tutto alla fine della finale.

Tutto vero, ma non è questo il punto.

Il punto è che dopo nessuno potrà giocare meglio di lui, per quanto zelo ci possa mettere e per quanta propaganda possano fare i media ultramiliardari nell’epoca delle iperconnessioni. Il futuro nel calcio non potrà mai essere migliore di quel passato. Un po’ come nel rock, nella classica, nel romanzo.

Il calcio sta tutto lì, in “come” Diego ha fatto quello che ha fatto in Messico.

Perché? Perché con il pallone faceva ogni cosa meglio del migliore degli altri (tranne il portiere e lo stopper).

Diego dribblava meglio di Causio, crossava meglio di Conti, vedeva il gioco e lanciava meglio di Platini, in area era letale come Van Basten, calciava le punizioni come Zico, accelerava meglio di Cruijff, stoppava il pallone come nessuno, crossava di rabona, segnava da metà campo dando le spalle alla porta e via di questo passo.

Il paradosso sta nel fatto che era, allo stesso tempo, ridondante ed essenziale. Ma non se ne accorgeva nessuno, perché lui era un’altra cosa e quindi i particolari, seppur unici, passavano in secondo piano di fronte alla perfezione del tutto.

Le immagini del Mondiale, quelle di tutti, sono arcinote: il goal di mano con l’Inghilterra, “il Goal” sempre con l’Inghilterra, l’assist alla fine della finale per Burruchaga, la coppa alzata.

Le mie immagini sono invece quelle della partita con il Belgio. Il secondo goal alla fine di uno slalom in un fazzoletto di terra, in mezzo a quattro giganti inebetiti in maglia rossa, con una torsione finale per incrociare sul secondo palo.

 

Maradona contro Belgio

 

E poi il fermo immagine, il mio fermo immagine. Diego, con la palla sul sinistro, solo contro tutta la difesa belga rigorosamente in linea. Solo con il pallone e sei uomini troppo impauriti per andargli incontro (vedere per credere). Una specie di Safari alla rovescia. In realtà, mi sa che si tratta di una foto dell’82 (mi pare che Diego non abbia la fascia di capitano). Ma nel calcio questo non conta. Qualche incongruenza temporale ce la possiamo pure concedere, no?

Ma non era neppure questo a rendere Diego unico.

L’unicità stava tutta e semplicemente nel suo legame profondo con la Palla. Il loro essere una cosa sola. Fino a qualche anno fa, quando ero più giovane, pensavo che la Palla fosse una schiava domata, una sorta di concubina di Diego.

Adesso invece mi sembrano solo due innamorati, che si migliorano l’uno con l’altra, che sono una cosa sola, uniti nel campo e nel mondo, ma altra cosa dal gioco e dal mondo, come se tutto il resto non li tangesse.

A Kind of Magic.

 

Ps: va bene… erano tutti e due innamorati, ma Lei a Lui non sapeva proprio dire di no!